Le priorità d’intervento

In Italia i terremoti sono accaduti, accadono e accadranno. Essere pronti per il prossimo terremoto è quindi una scelta obbligata, un dovere sociale, una inevitabile scelta istituzionale, a seconda che si guardi il problema dal punto di vista del singolo cittadino, delle amministrazioni locali o delle istituzioni nazionali.

Ma cosa vuol dire “essere pronti”? Vuol dire ad esempio sensibilizzare e coinvolgere la cittadinanza rispetto ai terremoti che la ricerca ci mostra essere plausibili, e più o meno probabili, nelle diverse aree del Paese: un’azione tesa a mobilitare tutto ciò che serve per ridurre l’impatto sul territorio di quel terremoto, calandolo nella concreta dimensione della quotidianità di ciascun cittadino.

E parlando di preparazione, il primo tema che va affrontato è certamente quello della vulnerabilità del costruito. È di tutta evidenza che l’Italia ha progressivamente – e altrettanto colpevolmente – accumulato un “debito di vulnerabilità”, ed è altrattanto chiaro che senza delle forti azioni di contrasto questo problema verrà semplicemente trasferito sulle future generazioni; garantendogli così di soffrire danni e lutti causati dai terremoti futuri anche più di quanto non ne abbia sofferto la nostra generazione, e nonostante l’impegno dei sismologi. 

È quantomai necessario dunque, con le risorse che il Supersismabonus sta mettendo a disposizione per incidere su questo tragico destino del nostro paese, partire con il piede giusto, fissando delle priorità di intervento che consentano di gestire al meglio tali risorse: esattamente l’opposto di quello che sta facendo il nostro governi, secondo quanto emerge dalla lettura dei recenti provvedimenti normativi in merito (il tema è discusso in nelle sezioni Normativa sul Sisma Bonus 2020 e la Nostra idea di prevenzione di questo sito.

La vulnerabilità del costruito: i tanti perché

Ma per fissare delle priorità bisogna prima capire e quantificare la distribuzione della vulnerabilità sul nostro territorio. Una vulnerabilità sostanzialmente dimenticata dai più, se non addirittura sconosciuta, progressivamente alimentata da quattro gruppi di circostanze tra loro ben distinte:

  • il ritardo con cui è stato reso finalmente cogente quanto previsto dall’intervento normativo avviato all’indomani del terremoto di San Giuliano di Puglia del 30 ottobre 2002: un intervento iniziato nel 2003 con il recepimento di un nuovo schema di classificazione già pronto dal 1998, proseguito nel 2004 con l’elaborazione del modello di pericolosità noto come MPS04, e concluso nel 2008 con la stesura delle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC08, recentemente aggiornate dalle NTC18). L’adozione delle nuove norme, che vedono un aumento sensibile della pericolosità di importanti aree dell’Italia, come la Pianura Padana, è stata rinviata più volte fino all’estate del 2009, ovvero fino a pochi mesi dopo il devastante terremoto dell’Aquila. Ne consegue che solo gli edifici costruiti/ristrutturati negli ultimi 10 anni, che rappresentano qualche punto percentuale dell’intero patrimonio nazionale, sono stati costruiti secondo le nuove norme;
  • le declassificazione di estese zone del territorio tra gli anni ’30 e i primi anni ’80 del secolo scorso, con la quale si decise che, per favorire la ricostruzione post-bellica e lo sviluppo turistico, si poteva edificare senza criteri antisismici anche in aree la cui pericolosità sismica è ben nota e piuttosto elevata, quale ad esempio la fascia costiera tra Rimini, Pesaro e Ancona. In questi cinquanta anni quelle città si sono trasformate ed estese enormemente, ed è noto che in Italia circa metà degli edifici in cemento armato sono stati costruiti fra il 1960 e il 1980. Quel patrimonio edilizio “fuori norma”, che si aggiunge al patrimonio storico, precedente a qualunque classificazione, rappresenta quindi una vera bomba a tempo rispetto alla quale c’è ben poca consapevolezza; 
  • la corruzione in campo edilizio, l’abusivismo edilizio, le superfetazioni su edifici originariamente a norma, e l’uso di pratiche edilizie oggi considerate del tutto inappropriate, come l’uso del cemento armato per la copertura di edifici in muratura di qualità scadente. A queste condizioni si aggiungono l’invecchiamento complessivo dell’edificato pubblico e privato, complici anche le ristrettezze economiche degli ultimi dieci anni, e il progressivo abbandono di edifici nei centri storici conseguente allo spopolamento delle aree interne della penisola, con l’inevitabile abbandono della loro manutenzione. Tutte circostanze che dovrebbero essere analizzate e sanzionate dalle amministrazioni locali, le uniche titolate anche a porre rimedio subito alle situazioni più preoccupanti;
  • infine, la “smemorizzazione” della popolazione, che manifesta una costante tendenza a dimenticare – e quindi abbandonare – le buona pratiche costruttive ereditate dalle generazioni precedenti, allo stesso tempo disperdendone il know-how. Un recente studio basato sulle storie sismiche dei centri abitati di tutto l’Appennino, dalla Liguria allo Stretto di Messina, ha identificato 716 comuni ad elevata pericolosità in quanto ricadenti sulla verticale di grandi faglie sismogenetiche, e li ha ordinati in funzione inversa del tempo trascorso dall’ultimo forte terremoto: una graduatoria di “perdita di memoria attesa” – una perdita causata dalla distanza nel tempo dell’ultimo forte terremoto. Il giorno prima di quel tragico 24 agosto 2016 Amatrice si trovava ai primi posti mentre Norcia, ricostruita con cura dopo i terremoti del 1979 e 1997, era in fondo. 

Cosa fare subito? L’importanza di fissare delle priorità d’intervento

I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno avviato un’opera di mitigazione del rischio, ma i risultati si fanno attendere, e in alcuni casi sappiamo già che non arriveranno mai. L’esempio più evidente è quello di Casa Italia, nata dopo i terremoti del 2016 e oggi trasformata in un Dipartimento della Presidenza del Consiglio. Il suo compito dichiarato doveva essere quello di “sviluppare, ottimizzare ed integrare strumenti destinati alla cura e alla valorizzazione del territorio, delle aree urbane e del patrimonio abitativo”; ma tra questi strumenti non ce ne è uno solo che indichi come assegnare priorità agli interventi pubblici. L’unica iniziativa in corso di avvio è quella denominata “10 Cantieri”, finalizzata a “sensibilizzare i territori ad intervenire sulla messa in sicurezza antisismica di edifici pubblici esistenti, in Comuni scelti su tutto il territorio nazionale”; ma i comuni sono dieci in tutto, ed è quindi evidente che si tratta di una indagine puntuale che non intende affrontare il problema della quantificazione della vulnerabilità a scala nazionale. Ci sarebbe poi una “Mappa dei rischi dei comuni italiani”, che però è di fatto una rielaborazione di dati di pericolosità che aggiunge poco alle conoscenze sulla vulnerabilità.

Esiste poi una iniziativa denominata “Piano Nazionale per la Prevenzione del Rischio Sismico”, intrapresa dal Dipartimento della Protezione Civile alcuni anni fa a seguito del terremoto dell’Aquila del 2009. Si tratta di una iniziativa svolta usando dati e metodiche di buona qualità, ma i cui risultati sono sempre espressi a scala nazionale, senza alcuna pretesa di leggerli anche in una chiave utile alla elaborazione di priorità d’intervento. 

E infine, come già ricordato, esiste il Supersismabonus, l’unico strumento governativo che, seppure in tempi lunghissimi, potrebbe determinare un deciso giro di boa, riducendo progressivamente la vulnerabilità del costruito in Italia: a patto però che gli si conceda un respiro pluriennale – cosa al momento non scontata – e che venga utilizzato seguendo un rigido schema di priorità.

Per un approfondimento sul tema della “smemorizzazione” si può fare riferimento a questi due articoli: il primo, in inglese, apparso nel 2017 sullo International Journal of Disaster Risk Reduction, il secondo, in italiano, pubblicato nel 2018 su Geologia Tecnica e Ambientale, l’organo del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG).